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31/01/2019

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L’Assistenza Infermieristica nelle Comunità Confinate

Verona, 19 marzo 2019 – Si è tenuto a Verona il 15 e 16 marzo il convegno “Un punto di vista alternativo per un nuovo modo di concepire l’assistenza e l’assistenza infermieristica nelle comunità confinate”.

Al contrario di quanto fino ad oggi si è potuto sostenere circa l’attività assistenziale e di assistenza infermieristica in carcere, termine quest’ultimo a nostro parere ormai desueto, la sfida non è quella di giocare una partita a porte chiuse, ma di condividerla con i tanti e tanti attori professionali che oggi vivono insieme agli ospiti di questi istituti loro malgrado, che hanno però il diritto di essere coinvolti nel processo di riabilitazione e a volte di cura di tipo sanitario.
Una rete attiva di servizi è l’obiettivo da perseguire per avvicinarsi a quanto dovrebbe essere attivato in queste comunità “Confinate”. Infatti, fra queste possiamo concettualmente far rientrare anche le REMS, gli istituti di custodia attenuata per le detenute madri, le unità operative di medicina protetta, al pari degli istituti di pena e delle case circondariali. In ognuno di questi istituti, esiste la coesistenza di diverse figure professionali che dovrebbero collaborare al fine di raggiungere degli obiettivi verso i quali ogni professione presente negli istituti dovrebbe essere proiettata. Spesso questo non accade perché ogni professione ha in se delle specificità che a volte difficilmente vengono comprese dagli altri operatori per i più disparati motivi, ma che sono sicuramente pieni di significato utile a farci comprendere perché a volte il sistema appaia non coeso e spesso incapace di fornire risultati utili al raggiungimento di quegli obiettivi.
Ma intendiamoci, l’individuazione di queste difficoltà di comunicazione fra le diverse professioni operanti nello stesso ambito, anche quando vengono raggiunti ottimi risultati all’interno dei più diversi progetti, deve semplicemente risultare di stimolo al loro superamento, in modo da non vivere più la disgregazione della comunicazione tra le diverse professioni e/o professionalità. Dobbiamo fronteggiare quei fenomeni che traggono origine dall’incomprensione professionale, che spesso genera quelle sensazioni di prevaricazione, di esclusione, di provocazione negativa, di frustrazione, che porta a un continuo distacco professionale con un conseguente e sempre più difficile riavvicinamento.
Ma come riuscire a raggiungere l’obiettivo di arrivare ad avere una rete di servizi che permetta una vera e propria presa in carico dell’utente? Proviamo a cambiare il punto di osservazione del problema, proviamo a pensare che forse non dobbiamo cambiare nulla per cambiare tutto.
A questo punto proviamo a osservare il problema in questo modo:
–          In quante comunità confinate esiste un sistema che permetta di definire le regole che devono essere rispettate affinché tutte le attività che vengono svolte possano rispettare dei requisiti che garantiscano i livelli minimi di assistenza accettabili, oltre ai livelli minimi accettabili riguardanti le strutture?
–          In quante comunità confinate esiste un sistema che ci permetta di descrivere i processi esistenti in esse?
–          In quante comunità confinate è possibile identificare i punti “nevralgici” dei processi messi in atto e quindi i punti dove si può prevedere un maggior rischio che accadano eventi o eventi avversi che mettano a repentaglio l’integrità dell’utente e degli operatori?
–          In quante comunità è possibile, attraverso strumenti adatti, che non sono altro che metodi di lettura del problema rischio, da applicare ai processi al fine di individuarlo e determinare una vera valutazione dello stesso, mettere in atto delle azioni che possano ridurlo e di conseguenza determinare il rischio residuo, sicuramente più accettabile e controllabile?
–          In quante comunità è possibile monitorare il rischio insito nei processi attraverso l’utilizzo di indicatori utili a rilevare l’andamento in positivo o in negativo dei processi o delle azioni messe in atto per ridurre il rischio nei processi?

Ebbene, ci sarebbe molto altro da evidenziare, molti altri aspetti legati al rischio, ma non solo, sapendo che l’analisi del rischio deve essere sempre associata a un sistema per la qualità che ci guidi al fine di poter iniziare a concepire un modello organizzativo basato sull’operare per processi e di conseguenza  ci consenta di  “scannerizzare” il nostro operare quotidiano,  avendo la capacità, poi, di comprendere che esistono interazioni tra le varie professioni presenti negli istituti che non solo debbano essere ricondotte ai processi, ma debbano arrivare ad intersecarsi tra loro in modo chiaro, inteso come la capacità di poter “radiografare” in ogni momento il processo o i processi e le loro interazioni e infine monitorare il tutto affinché, come attraverso il continuo osservare un cruscotto, ci si possa accorgere se la velocità che dovrebbe portarci al raggiungimento degli obiettivi stia aumentando, sia stabile o, a causa di eventi negativi, stia addirittura invertendo la rotta. Insomma, una sorta di Uovo di Colombo, in cui ogni professione continuerebbe ad agire secondo i propri canoni, ma semplicemente adattando e modulando l’utilizzo dei propri strumenti, in modo che all’interno di un modello organizzativo, basato sulla qualità e sulla percezione del rischio, in armonia con le altre professioni, si possa interfacciare naturalmente al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati dall’equipe operativa.
Quando la soluzione a un problema tende a sfuggirci, quindi, a volte è proprio davanti a noi. Dobbiamo individurala e coglierla, o siamo forse noi stessi incapaci di farlo in modo fattivo, a causa di diversi motivi contingenti o storici?

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Author: SIMSPE

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