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SIMSPE
31/05/2011

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I medici penitenziari; il carcere è la nostra Africa

       
      Il “Terzo Mondo” italiano dove la salute non è un diritto rispettato.
      Malattie mentali, aids, tbc e suicidi, questi i mali storici. L’epatite C
      è la nuova emergenza: colpisce un detenuto su tre, un virus che esce dal
      carcere insieme al detenuto. Per la salute pubblica, un pericolo in più.
      La denuncia del carcere malato arriva dai medici penitenziari della
      S.I.M.S.Pe. Un’indagine GfK-Eurisko fotografa l’emergenza Epatite C in 25
      istituti di pena italiani.
      Il carcere è la nostra Africa. È il nostro “terzo mondo”. E non solo
      perché è forte la presenza degli extracomunitari. È la terra dove alcuni
      diritti fondamentali sono solo astratti principi. Primo fra tutti il
      diritto alla salute. Malattie mentali, Aids, Tbc, suicidi,
      tossicodipendenza: i “mali storici”. Adesso esplode l’Epatite virale C. Un
      dato è allarmante: colpisce un detenuto su tre. La malattia non si fa
      fermare dalle sbarre ma esce con il detenuto scarcerato o in licenza
      premio. E diventa un ignorato problema di salute pubblica. In un carcere
      che l’indulto ha soltanto provvisoriamente alleviato e che già vede i
      primi segnali di un ritorno “all’ acqua alla gola” , la salute è la prima
      delle emergenze.
      L’allarme viene dai medici che tutti i giorni lavorano nella terra dei
      diritti disattesi: i medici di medicina penitenziaria della Società
      Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria che, per rompere il silenzio,
      su questa drammatica realtà e per confrontare con le Istituzioni possibili
      soluzioni si riuniscono in un Congresso a Roma dal 4 al 6 ottobre.
      Congresso anticipato in una conferenza stampa dove è stata presentata
      un’indagine, proprio sull’emergenza Epatite C in carcere, condotta da
      GfK-Eurisko in 25 Istituti penitenziari in tutta Italia.
      “I detenuti aumentano e, con loro, le malattie. L’unica cosa che proprio
      non cresce, anzi viene drasticamente ridotta, è il finanziamento. Dobbiamo
      dire grazie ad alcune Regioni che si sono fatte carico negli ultimi
      quattro – cinque anni della spesa farmaceutica e, in parte, di quella
      specialistica e ospedaliera. Peccato che, a fronte di Regioni “virtuose”,
      ce ne sono alcune che il grido d’allarme che viene da dietro le sbarre
      proprio non lo vogliono sentire”. È forte la denuncia di Giulio Starnini,
      Direttore del Reparto di Medicina Protetta-Malattie Infettive
      dell’Ospedale Belcolle di Viterbo.
       
      Le cifre dell’emergenza sanitaria nelle carceri italiane
       
      Il 62 per cento dei detenuti ha una patologia che necessita di un
      intervento medico. Il 43,5 per cento di questi ha problemi
      psicologico-psichiatrici e il 28,3 per cento ha una malattia virale
      cronica. Tra le malattie virali croniche l’Epatite C è al primo posto:
      coinvolge circa un quarto dei detenuti di quelli presenti negli Istituti
      penitenziari analizzati dall’indagine.
      L’Epatite C dilaga ma non sempre i detenuti ricevono le cure adeguate:
      infatti, solo la metà dei detenuti viene messo subito in terapia e, fra
      questi, un quarto dei pazienti non accetta la terapia. Un terzo dei
      pazienti in trattamento sospende la cura prima del previsto. Questo
      significa che su cento detenuti con Epatite C sono 74 quelli che non
      seguono alcuna terapia o la interrompono prima.
      Eppure, nonostante il detenuto sia un paziente “difficile”, la metà dei
      medici coinvolti dall’indagine GfK-Eurisko affermano che i risultati della
      terapia dell’Epatite C ottenuti in carcere sono migliori di quelli
      ottenuti in comunità grazie al fatto che c’è la possibilità di seguire
      meglio il paziente/detenuto. Il carcere, quindi, è “un’occasione” mancata
      di terapia.
       
      Ecco perché dilaga l’Epatite C in carcere
       
      “L’Epatite C (HCV) è la malattia infettiva più diffusa nel carcere – dice
      Roberto Monarca, Presidente dell’VIII Congresso Nazionale della Società
      Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (S.I.M.S.Pe) e Dirigente
      Medico I° livello – Centro di riferimento AIDS – Ospedale “Belcolle” di
      Viterbo -. Colpisce oltre il 38 per cento della popolazione detenuta, in
      pratica più di un detenuto su tre è contagiato dal virus. Nelle donne la
      prevalenza si attesta sul 30 per cento. La prevalenza più alta si registra
      nei detenuti tra i 35-40 anni e questo è, per quanto riguarda la terapia,
      un elemento favorevole perché un malato più giovane e con minore durata di
      malattia si cura meglio.
      Fuori dal carcere l’età di maggiore prevalenza di Epatite C è fra i 55 e i
      60 anni. L’Epatite C è una malattia ad altissimo rischio nel carcere
      perché nel luogo di detenzione ci sono condizioni che ne favoriscono la
      diffusione. In primo luogo la concentrazione di tanti soggetti a rischio,
      in modo particolare tossicodipendenti, il sovraffollamento, tanti detenuti
      chiusi in un’unica cella; e poi l’uso in comune di oggetti taglienti come
      rasoi, tagliaunghie e di spazzolini da denti. C’è anche il rischio di
      trasmissione, pur se in minor misura, con rapporti omosessuali. Un
      problema a sé è quello dei tatuaggi.
      In carcere farsi un tatuaggio è una specie di rito. Molti detenuti,
      soprattutto quelli che sono in carcere per la microcriminalità ma anche
      per la criminalità organizzata, utilizzano il tatuaggio come un segno di
      riconoscimento. Non avendo a disposizione aghi idonei al tatuaggio, i
      detenuti usano spesso metodi primitivi come aghi “rimediati”, addirittura
      iniettandosi l’inchiostro delle penne a sfera. “Strumenti” primitivi che
      vengono passati di mano in mano diventando, quindi, fonte di trasmissione
      del virus. Il detenuto ha tutte le caratteristiche di un “paziente
      difficile”. Non mancano, purtroppo, persone refrattarie a qualsiasi
      autorità, con un problematico rapporto medico-paziente.
      Ci sono poi detenuti con problematiche psichiatriche e di dipendenza. Non
      bisogna dimenticare che ci sono detenuti, il discorso vale in modo
      particolare per l’Aids ma in larga parte anche per l’Epatite C, che
      rifiutano le cure perché vogliono usufruire di una Legge che concede il
      trasferimento in ospedale o la libertà a chi è malato in una forma grave.
      Quindi, per un medico penitenziario la cura è particolarmente impegnativa.
      La terapia oggi più utilizzata è la combinazione interferone peghilato e
      ribavirina. Con questa terapia che è d’elezione, si ottengono percentuali
      di guarigione che vanno dal 50 all’80 per cento. Quindi la cura c’è ed è
      efficace. Se fosse possibile curare tutti i malati durante la loro
      detenzione e garantire loro la continuità terapeutica nel circuito
      penitenziario e dopo la scarcerazione, certamente l’Epatite C non sarebbe
      più un’emergenza per la sanità penitenziaria e si ridurrebbe il rischio di
      trasmissione alla popolazione fuori dal carcere”.
       
      La ricetta per il carcere malato
       
      “Nessuno ha la bacchetta magica – dice Giulio Starnini. Credo che il
      carcere così come è oggi non sia la risposta idonea alla detenzione
      sociale. La riforma dei codici penali e dei codici di procedura penale è
      l’occasione per pensare ad una gradualità di misure sanzionatorie più
      efficaci ed anche meno dispendiose del carcere. Certamente l’assenza di
      politiche chiare e definite nel settore dell’assistenza sanitaria in
      carcere e a volte anche di semplici indicazioni da parte del Palazzo non
      ha giovato a nessuno. Per quanto ci compete comincerei, quindi, da qui, da
      una seria riforma che orienti il passaggio al Sistema Sanitario Nazionale
      e alle Regioni e che non sia subordinata a tristi criteri di carattere
      finanziario ma piuttosto orientata ad investire su uno sviluppo
      “sostenibile” che passi attraverso l’integrazione e l’ottimizzazione dei
      Servizi esistenti.
      Va valorizzato l’enorme patrimonio di organizzazioni non governative che
      già operano negli istituti, razionalizzando i loro interventi,
      integrandoli con quelli pubblici, evitando sovrapposizioni. Bisogna dare
      all’attuale personale sanitario certezze e motivazioni: spesso è personale
      precario, posto all’ultimo gradino nella scala delle professionalità,
      costretto a rincorrere i propri diritti e quindi, alla lunga, desideroso
      solo di trovare una nuova collocazione.
      Occorre riconvertire i Centri Clinici esistenti all’interno degli Istituti
      penitenziari di Day Hospital e Day Surgery evitando così di ingolfare
      ambulatori e servizi esterni già sovraccarichi. In questi ultimi anni sono
      stati aperti tre reparti per detenuti presso Ospedali pubblici (Milano –
      Azienda Ospedaliera San Paolo, Roma – Presidio Ospedaliero “Pertini” e
      Viterbo- Presidio Ospedaliero “Belcolle”) che si aggiungono a quello del ”
      Civico” di Palermo.
      Il principio ispiratore è stato l’esatto opposto di quello che aveva
      orientato la realizzazione dei Centri Clinici e cioè “attenzione agli
      aspetti della sicurezza in ambito sanitario ” piuttosto che ” attenzione
      agli aspetti sanitari in ambito di sicurezza”. La ricetta è semplice
      eppure, me ne rendo conto, estremamente complessa. La volontà politica c’è
      ma i ritardi aumentano.
      La medicina penitenziaria è pronta per fare la sua parte. Pronta ad essere
      accolta nel Servizio Sanitario Nazionale e a collaborare con il Ministero
      della Giustizia. Non vogliamo però continuare ad essere, per i nostri
      stessi pazienti, la cenerentola dei servizi né il paravento per le
      inefficienze di altri. Nel nostro Congresso lo chiederemo ai Ministri
      pronti a metterci a disposizione con progetti chiari. La nostra esperienza
      di medici del carcere è vastissima. Vorremmo che venisse utilizzata come
      merita”.
       
      Medico penitenziario: una figura da rivisitare
       
      “L’attuale incertezza normativa – dice Andrea Franceschini, presidente
      della S.I.M.S.Pe. e Direttore Sanitario C.C. Regina Coeli a Roma – rende
      necessaria ed urgente la rivisitazione della figura del Medico
      Penitenziario nel suo complesso. Diventa oramai necessaria la
      ridefinizione di tale ruolo con autonomia organizzativa e progressione di
      carriera ed economica; in quanto sono, di fatto e nell’attività svolta,
      Dirigenti Medici a tutti gli effetti e già impegnati a più livelli
      all’interno dell’Amministrazione Penitenziaria.
      Considerare come una risorsa quegli Operatori sanitari che si sono
      distinti per impegno e professionalità è un elemento indispensabile per
      favorire la buona riuscita della configurazione di un nuovo assetto nell’
      attività assistenziale in carcere. Il Documento di indirizzo della SIMSPe
      2007-2008 è chiaro e si pone numerosi obiettivi fra i quali si ritiene
      indispensabile la riattivazione dello staff sanitario presso la Direzione
      Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento
      dell’Amministrazione Penitenziaria, al fine di supportare la stessa
      Amministrazione con un indispensabile strumento tecnico in campo
sanitario.
      E passiamo alle Regioni. Le Unità Operativa di Sanità Penitenziaria hanno
      raggiunto una buona efficienza operativa e sono state riconosciute valide
      innovazioni amministrative anche dalla Corte dei Conti. È necessario però
      definirne con decreto interministeriale loro attribuzioni e relative
      funzioni. Le “Unità Operative di Sanità Penitenziaria” rappresentano, di
      fatto, il luogo ideale di incontro con gli Assessorati alla Sanità per
      disegnare le nuove realtà assistenziali locali”.
 

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Author: SIMSPE

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