Intervista al Presidente della Simspe, dott. Andrea Franceschini. Dalle dipendenze del Dap – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria al SSN – Servizio Sanitario Nazionale: per la medicina penitenziaria è una riforma epocale. Il cambio di rotta è entrato in vigore il 15 giugno 2008, ma è partito a tutti gli effetti dal 1° ottobre, giorno in cui i 3mila medici che oggi lavorano nei 205 istituti di pena italiani sono passati al libro paga del SSN.
“È una nuova frontiera anche per noi, un passaggio che se non affrontato bene dalle istituzioni può portare al rischio di non vedere riconosciuta la nostra esperienza”, spiega Andrea Franceschini, 60 anni, medico nel carcere romano di Regina Coeli dal 1975 e presidente della Simspe – Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, ente di riferimento della categoria che ha appena concluso a Milano il suo nono congresso nazionale. È con lui che Vita fa il punto sullo status quo di un mestiere “dietro le quinte”.
Quali sono le aree critiche su cui intervenite di più?
Lavoriamo molto per curare le infezioni e nel campo psichiatrico, a cui si aggiunge l’intervento sui tossicodipendenti, che oggi sono il 35% della popolazione carceraria, mai cosi tanti. Poi c’è la pessima situazione clinica della popolazione straniera, che a Regina Codi è il 50% dei 950 detenuti attuali e dei 6mila ingressi annui. Ad esempio, l’epatite C è arrivata al 30% di contagi.
Il numero attuale di medici è soddisfacente?
Ne servirebbero di più. Soprattutto tenendo conto del sovraffollamento delle carceri: a Viterbo, ad esempio, c’è un solo medico per 470 detenuti. Nelle grandi città, dove il numero è adeguato, i problemi sono però di natura strutturale: a Secondigliano, Napoli, ad esempio, il nuovo carcere è al top per la sicurezza ma non ha strutture sanitarie adeguate, così come a Opera, dove manca la sala operatoria.
Quali le carceri modello?
Da noi a Regina Coeli ci sono 9 medici, 25 Specialisti, 15 medici di guardia e 50 infermieri per un Centro Clinico avanzato, che funziona. Siamo tanti, ma la richiesta è alta e gli straordinari sono la regola: io dovrei visitare 6 ore al giorno, ne faccio il doppio. Altri modelli sono gli istituti di pena di Pisa e Le Vallette di Torino, dotati di ottime strutture mediche. In generale, dove c’è l’impegno di tutti gli operatori carcerari, le cose vanno bene. E dove ci sono più misure alternative, meglio ancora.
In che senso?
Per molti detenuti malati la vita dietro le sbarre è ancora più difficile del normale. Alle dure regole si aggiunge infatti l’handicap fisico, che spesso diventa mentale. Per questo, dare alla persona la possibilità di uscire dall’istituto per scontare la pena significa migliorare la qualità della sua vita: nei casi che riteniamo legittimi; spesso siamo noi medici a proporre queste misure all’autorità competente.
Vita, 11 ottobre 2008